SOMMARIO del 142 • Salvare il mondo, di Harald Welzer
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* Da questo numero prende vita una nuova rubrica: "ALLE RADICI DELLE PAROLE”
EDITORIALE del numero 142
SENSO DELLA VITA. NEL MEDIOEVO E OGGI
Ettore MASINA
Era un mondo di analfabeti il cui linguaggio risultava quasi incomprensibile ai dotti, così come alla plebe incomprensibile (e minaccioso) sembrava l’eloquio dei Signori. Ignoranza e superstizione dominavano le popolazioni, stringevano in una morsa di paura gli abitanti di un’Europa devastata da guerre senza fine.
Le eclissi di sole o di luna, le comete, i terremoti, le nascite di animali deformi nelle stalle o nei pollai, le epilessie, la lebbra seminavano nei villaggi un terrore che si univa a quello che fermentava nell’oscurità delle notti, in cui le streghe celebravano orge con diavoli dalle terga caudate. Dio mandava carestie e alluvioni per punire peccati che la gente non sapeva di avere commesso. Spaventose epidemie falcidiavano le popolazioni, ma anche quando le catastrofi non azzannavano l’intera umanità, la grandissima maggioranza della gente moriva senza che mai un medico si fosse chinato sui suoi affanni.
In quei tempi, tuttavia – il Medioevo dei secoli XIII e XIV – alcuni ecclesiastici o laici di nobile casato o uomini mantenuti da generosi mecenati incarnarono la figura del doctor universalis, colui che conosceva tutto lo scibile umano. Teologo, filosofo, poeta, giurista, geografo e talvolta scienziato, il “dottore universale” aveva letto e riletto non soltanto la Bibbia e i libri liturgici ma tutti i venti tomi della sua biblioteca o i cento della biblioteca abbaziale: era, insieme al Papa, l’unico che potesse spiegare i misteri delle anime, dei corpi e dell’universo intero. Nessuno, dopo questi uomini, avrebbe incarnato un sapere enciclopedico così vasto e indiscutibile. Profferivano sentenze che delineavano la civiltà, la verità, la giustizia. Garantivano certezze, placavano dubbi.
Ma la storia andò avanti e la scienza e le tecniche moltiplicarono le loro acquisizioni. Con l’aiuto di Gutenberg e dei suoi discendenti, i libri negli scaffali aumentarono impetuosamente di numero e di pagine ma le differenze fra i loro contenuti andarono crescendo. Poco a poco i dotti furono costretti ad arrendersi a una dolorosa constatazione: se si voleva progredire nella civiltà, era inevitabile rompere quella che era sembrata una assoluta necessità di unità fra i saperi. Cominciava a nascere la specializzazione, in cui gli studiosi dovevano, per economia di tempo e di forze, muoversi in aree delimitate, talvolta in isole lontane l’una dall’altra. Etica e scienze naturali cominciarono a denegarsi reciprocamente o almeno a considerarsi detentrici di verità ultime che gli “altri” non possedevano.
La storia europea è piena di queste incomprensioni, diffidenze e ignoranze del pensiero altrui e delle altrui esperienze. Difficile, forse sempre più difficile, si è fatto il dialogo fra scienze, fra scienze e filosofia, fra scienze e teologia. Anche quando, generosamente, si sforzino di capirsi, gli “specialisti” scoprono che le parole con le quali cercano di esprimersi hanno per gli “altri” un diverso significato. Noi siamo i figli di questo dissidio, che talvolta ci getta in tormentosa confusione. Neppure la crescita dell’istruzione di base – immensa conquista della civiltà, suprema conquista della democrazia – ha risolto il problema di definire il nostro essere. È cresciuta enormemente la massa di informazioni di cui gli individui dispongono oggi, quindi la possibilità di costruire ragionamenti e di scegliere la propria etica, ma in realtà il semplice nozionismo non basta. Il grande pedagogista brasiliano Paolo Freire ha mostrato come vi sia persino un’alfabetizzazione con la quale il Mercato solleva ondate di conformismo invece che di libertà interiore. La televisione, maestra principale del nostro pensare, attiva questo processo di banalizzazione: intorno a un fatto “importante” (ma basta vedere la programmazione di “Porta a Porta” per constatare quanto sia frivola quella definizione) si crea un dibattito ma, secondo i moduli dell’audience, quel dibattito somiglia, per lo più, a una rissa. Si orchestrano personaggi grintosi, i maleducati, gli “esperti” capaci di azzuffarsi con i loro simili. La possibilità di fornire chiavi interpretative è annullata dalla scelta dei contendenti. Davanti al piccolo schermo, come diceva Dante: “Un Marcel (cioè un leader) diventa ogni villan che parteggiando viene”. E anche più triste è la presenza (del resto rara) di autentici intellettuali, i quali accettano sorridendo le “regole del gioco”: “Professore, mancano due minuti alla pubblicità. Può spiegarci brevemente che cosa si intende per senso della vita?”.
BRANCOLARE NELLA LUCE
Pasquale IANNAMORELLI
In questi ultimi mesi, per lo strano mistero delle impollinazioni incrociate di cui parlavamo nel numero scorso, ho imparato a conoscere meglio quel grande genio della nostra letteratura che è Giacomo Leopardi. E leggendo per la prima volta “La ginestra” sono rimasto molto colpito dall’aver trovato in apertura il versetto del Vangelo di Giovanni (3, 19) “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”. Quella luce che sempre secondo Giovanni (1, 15) “splende nelle tenebre”.
Al male si può resistere, a patto che lo si voglia. Come la minuscola, insignificante ma resistente ginestra. Come lei potremmo scegliere la luce al posto delle tenebre. Ma preferiamo la violenza alla mitezza, la prepotenza alla condivisione, le certezze al dubbio, l’arroganza alla tenerezza.
La ginestra leopardiana, in una visione cosmocentrica (dove tutte le “creature” hanno pari dignità) e non antropocentrica dell’universo, si dimostra “più saggia” e “tanto meno inferma dell’uom”. Nel suo delicato colore giallo oro, questo esile fiorellino assorbe e umilmente trasmette la luce del sole che la cenere, i lapilli e le pietre del Vesuvio, nella loro superbia, respingono.
Partendo da Giacomo Leopardi e dal Vangelo di Giovanni da lui opportunamente evidenziato, mi è parso giusto offrire una mia riflessione sulla potenza della “luce”.
L’espressione “brancolare nella luce” mi è stata suggerita dal mio amico pseudo non credente proprio mentre stavamo balbettando qualcosa sulla fatica di una ricerca di Fede. Decidendo di avventurarsi per questo sentiero impervio si muovono passi incerti, non si hanno punti di riferimento, ma c’è comunque la “Luce”, c’è la Verità.
Brancolare nella luce è, allora, avere sete di Dio, anche se non si riesce a trovarlo perché, nonostante le nostre resistenze, le nostre ritrosie, i nostri dubbi, le nebbie fitte, lo stiamo già incontrando. E sono convinto che la crescita interiore è proporzionale allo sforzo che si impiega in questa faticosa ricerca.
Brancolare nella luce, in una realtà convulsa come quella che viviamo ogni giorno, significa avere il coraggio di “perdere tempo”: perdere tempo ad ascoltare l’altro, tempo a guardarsi negli occhi con tenerezza (se ci si guarda da vicino, si vede riflesso il proprio volto come in uno specchio), tempo per condividere, per cercare insieme, tempo per capire che non si è soli.
Brancolare nella luce è renderci conto che il modo per essere felici non è avere di più ma piuttosto accumulare di meno: la felicità non dipende da quello che ci manca, ma dal saper fare buon uso e godere di quello che si ha. La felicità non va cercata “altrove”, ma dentro di noi.
Brancolare nella luce è apprezzare momento dopo momento l’immenso dono della vista. Mi capita sempre di fermarmi sbigottito, impietrito, quando incontro un cieco. Una persona che non conosce la bellezza delle creature illuminate; uno che vive senza poter godere dei colori del cielo, dei fiori, di un ramo che si ricopre di gemme in primavera; uno che non sa cosa sia fissare negli occhi una persona cara.
Brancolare nella luce è avere il coraggio di attraversare la notte di lunghi periodi della vita con i suoi silenzi, il suo buio tetro, con le sue domande senza risposta, con i nostri cuori diventati di pietra e non più di carne.
Brancolare nella luce è scoprire che in noi ci sono molte più energie, molte più risorse, molte più potenzialità, molta più attitudine alla bellezza, alla gioia, all’apertura verso l’altro di quanto immaginiamo. C’è una parte “divina”, in fondo a noi, che sarebbe capace praticamente di qualsiasi cosa. Basterebbe riconciliarci con questo nostro angolo più profondo.
Brancolare nella luce è saper scorgere lo splendore del cielo, il riflesso della presenza di Dio anche in una pozzanghera fangosa, è imparare a cogliere la meraviglia del suo esserci mentre si dona una carezza a un ammalato che soffre o alla persona che si ama. Se non so cogliere la Sua presenza in questi semplici gesti, vuol dire che non so cosa sia l’Amore e non sono degno di essere a mia volta amato.
Ho trovato “luce” nel volto di una persona segnato dalla disperazione, nel batuffolo vivente raccolto in una culla, nell’ansimare di un vecchio che non riesce a realizzare ciò che ha progettato, nella serenità disarmante di Emidio e Francesco, pastori di capre tra queste mie montagne abruzzesi. E non riesco a scorgerla, invece, in una riunione di intellettuali, di filosofi, di teologi, di politici che riempiono l’aria di parole altisonanti e solenni ma… senza luce!
Riflettendo in questi giorni sull’intuizione del mio amico “cosiddetto non credente” mi sono tornate in mente le parole del grande mistico San Giovanni della Croce: «Non voler essere come molti insipienti i quali credono che Dio sia lontano e nascosto, mentre è vero il contrario e cioè che quanto meno distintamente lo intendono più si accostano a lui, poiché come dice il profeta Davide: “Pose il suo nascondiglio nelle tenebre” (Salmo 18, 12)».
Siamo inondati di luce. E le nostre vite procedono stancamente e nervosamente come se attorno a noi regnasse il buio più pesto. Siamo, infatti, continuamente bombardati da luminarie che non sono luci: non indicano la strada ma ci depistano, non comunicano stupore e pienezza ma noia e vuoto.
Ecco perché non bisogna avere nessun timore di… brancolare nella luce.
* ALLE RADICI DELLE PAROLE
Angelica ZAPPITELLI
«L’etimologia è la psicologia del linguaggio, il modo di penetrare l’anima delle parole.
Una mente etimologica trae infiniti godimenti dalle parole, i quali sono ignorati da coloro che non considerano le parole se non come suoni convenzionali». (Alberto Savinio)
Nella mia pratica di insegnante di Lettere, mi piace sempre introdurre il dialogo con dei nuovi alunni chiedendo cos’è, nella loro percezione, la cultura, e dunque da cosa si distingue una persona colta. In genere, tutte le risposte convergono nell’identificare una persona colta dal modo in cui sa esprimersi, sa padroneggiare il linguaggio, in definitiva sa usare le parole.
La conoscenza del latino e del greco è uno strumento insostituibile per acquisire la consapevolezza dell’esatto valore delle parole, il cui impiego dovrebbe essere vissuto sempre con somma attenzione e rispetto estremo; perché senza le parole e senza la comunicazione che le veicola non c’è vita.
Ho assistito però troppo spesso, da alunna e da insegnante, allo scempio che si fa a scuola delle lingue classiche, sempre meno amate dai ragazzi perché sempre più ridotte a uno sterile grammaticalismo, quasi uno strumento di tortura che, fondato sullo studio meccanico di regole e paradigmi, priva le giovani menti di qualunque emozione per la scoperta di nuove connessioni e dunque dei nuovi mondi che si celano dietro le radici delle parole.
Proviamo a offrire solo qualche esempio, tratto proprio dall’ambito didattico.
MAESTRO deriva dal latino magister, a sua volta composto dall’avverbio magis, che significa “più” e dal suffisso -ter che indica un rapporto tra due persone; il maestro è dunque colui che sa più di un altro, che gli è superiore per conoscenza e autorevolezza. Il suo contrario è etimologicamente il MINISTRO, dal latino minister, formato dall’avverbio minus (che diventa minis, come nell’italiano il prefisso mini-) che vuol dire “meno” e dallo stesso suffisso -ter: ossia, colui che vale di meno, che è meno importante, tanto da diventare a tutti gli effetti sinonimo di “servo”. Il termine “ministro” dunque, ben diversamente dalla connotazione elevata che oggi ha assunto, in ambito sia politico che religioso, indicava originariamente una persona che è al servizio degli altri: ed è fin troppo evidente l’urgenza di recuperare in pieno, nelle sue implicazioni etiche, il senso originario di questo termine.
ALUNNO deriva dal verbo alere, che significa “nutrire”; la stessa radice al- si trova infatti nella parola alimento; l’alunno è perciò colui che viene nutrito dall’insegnante, e il processo educativo nella lingua latina viene così accomunato all’atto del cibarsi, suggerendo in tal modo la stessa idea di necessità primaria, per il corpo come per l’intelletto e l’anima, nonché lo stesso benefico effetto di crescita.
EDUCARE deriva da ex (“fuori”, più evidente nell’inglese exit “uscita”) ducere, “condurre”: ossia far uscire, tirare fuori dall’alunno le potenzialità nascoste e le conoscenze che è in grado di elaborare; esattamente il contrario, dunque, della troppo comune prassi didattica che vede gli alunni come dei sacchi da riempire di nozioni.
Lettera aperta al Presidente della Repubblica
on. Giorgio Napolitano
11 Aprile 2011
Signor Presidente,
lei non può certo conoscere i nostri nomi: siamo dei cittadini fra tanti di quell'unità nazionale che lei rappresenta.
Ma, signor Presidente, siamo anche dei "ragazzi di Barbiana". Benchè nonni ci portiamo dietro il privilegio e la responsabilità di essere cresciuti in quella singolare scuola, creata da don Lorenzo Milani, che si poneva lo scopo di fare di noi dei "cittadini sovrani". Alcuni di noi hanno anche avuto l'ulteriore privilegio di partecipare alla scrittura di quella Lettera a una professoressa che da 44 anni mette in discussione la scuola italiana e scuote tante coscienze non soltanto fra gli addetti ai lavori.
Il degrado morale e politico che sta investendo l'Italia ci riporta indietro nel tempo, al giorno in cui un amico, salito a Barbiana, ci portò il comunicato dei cappellani militari che denigrava gli obiettori di coscienza. Trovandolo falso e offensivo, don Milani, priore e maestro, decise di rispondere per insegnarci come si reagisce di fronte al sopruso. Più tardi, nella Lettera ai giudici, giunse a dire che il diritto - dovere alla partecipazione deve sapersi spingere fino alla disobbedienza: “In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste ( cioè quando avallano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate”.
Questo invito riecheggia nelle nostre orecchie, perché stiamo assistendo ad un uso costante della legge per difendere l'interesse di pochi, addirittura di uno solo, contro l'interesse di tutti. Ci riferiamo all’attuale Presidente del Consiglio che in nome dei propri guai giudiziari punta a demolire la magistratura e non si fa scrupolo a buttare alle ortiche migliaia di processi pur di evitare i suoi.
In una democrazia sana, l'interesse di una sola persona, per quanto investita di responsabilità pubblica, non potrebbe mai prevalere sull'interesse collettivo e tutte le sue velleità si infrangerebbero contro il muro di rettitudine contrapposto dalle istituzioni dello stato che non cederebbero a compromesso. Ma l'Italia non è più un paese integro: il Presidente del Consiglio controlla la stragrande maggioranza dei mezzi radiofonici e televisivi, sia pubblici che privati, e li usa come portavoce personale contro la magistratura. Ma soprattutto con varie riforme ha trasformato il Parlamento in un fortino occupato da cortigiani pronti a fare di tutto per salvaguardare la sua impunità.
Quando l'istituzione principe della rappresentanza popolare si trasforma in ufficio a difesa del Presidente del Consiglio siamo già molto avanti nel processo di decomposizione della democrazia e tutti abbiamo l'obbligo di fare qualcosa per arrestarne l'avanzata.
Come cittadini che possono esercitare solo il potere del voto, sentiamo di non poter fare molto di più che gridare il nostro sdegno ogni volta che assistiamo a uno strappo. Per questo ci rivolgiamo a lei, che è il custode supremo della Costituzione e della dignità del nostro paese, per chiederle di dire in un suo messaggio, come la Costituzione le consente, chiare parole di condanna per lo stato di fatto che si è venuto a creare. Ma soprattutto le chiediamo di fare trionfare la sostanza sopra la forma, facendo obiezione di coscienza ogni volta che è chiamato a promulgare leggi che insultano nei fatti lo spirito della Costituzione. Lungo la storia altri re e altri presidenti si sono trovati di fronte alla difficile scelta: privilegiare gli obblighi di procedura formale oppure difendere valori sostanziali. E quando hanno scelto la prima via si sono resi complici di dittature, guerre, ingiustizie, repressioni, discriminazioni.
Il rischio che oggi corriamo è lo strangolamento della democrazia, con gli strumenti stessi della democrazia. Un lento declino verso l'autoritarismo che al colmo dell'insulto si definisce democratico: questa è l'eredità che rischiamo di lasciare ai nostri figli. Solo lo spirito milaniano potrà salvarci, chiedendo ad ognuno di assumersi le proprie responsabilità anche a costo di infrangere una regola quando il suo rispetto formale porta a offendere nella sostanza i diritti di tutti. Signor Presidente, lasci che lo spirito di don Milani interpelli anche lei.
Nel ringraziarla per averci ascoltati, le porgiamo i più cordiali saluti
Francesco Gesualdi, Adele Corradi, Nevio Santini, Fabio Fabbiani, Guido Carotti, Mileno Fabbiani, Nello Baglioni, Franco Buti, Silvano Salimbeni, Enrico Zagli, Edoardo Martinelli, Aldo Bozzolini
Breve scheda biografica di don Lorenzo Milani
Don Lorenzo Milani, morto nel giugno 1967, è salito alla ribalta della scena italiana per essersi dedicato, corpo e anima, all'elevazione culturale di operai e contadini affinché potessero affrancarsi dall'oppressione e dall'ingiustizia.
Persona tutta d'un pezzo, appena nominato cappellano a Calenzano (Firenze), scosse l'Italia per la sua costante denuncia di tutte le situazioni che provocano ingiustizia e violazione dei diritti, indipendentemente da chi le provocasse o avallasse. Ciò gli procurò molti nemici anche all'interno della sua stessa Chiesa, che per neutralizzarlo lo confinò a Barbiana, un villaggio sperduto sugli Appenini toscani. Ma la sua notorietà crebbe ulteriormente perché creò una scuola del tutto innovativa, per contenuti, finalità e metodi. L'atto finale fu la stesura di Lettera a una professoressa, un testo collettivo scritto assieme agli allievi per denunciare il carattere classista e discriminatorio della scuola italiana.
Don Milani è famoso anche per la Lettera ai Giudici, nella quale sostiene il primato della coscienza sulle leggi dell'uomo proponendo la disobbedienza come via estrema per evitare all'umanità il ripetersi delle atrocità che ha conosciuto.